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30 novembre 1979: esce "The Wall", il muro dei Pink Floyd.

Aggiornamento: 30 nov 2020

41 anni fa, il 30 novembre 1979, usciva nel Regno Unito “The Wall”, l’undicesimo album in studio dei Pink Floyd.

Ricordo ancora quando, attorno a Santa Lucia dello stesso anno, con mia madre entrai in uno di quelli che erano i meravigliosi negozi di dischi e, senza tentennamenti, puntai l’indice verso quel quadrato di mattoni bianchi in bella mostra alle spalle del bancone.

Da quel giorno, non ho mai smesso di gustarmi, in ogni sfumatura, quello che considero uno dei 10 capolavori assoluti della musica rock.

Definirlo mi è sempre riuscito difficile, perché “The Wall” non è solo un album rock: è una storia che commuove, è una critica severa alla società inglese dell’epoca, è un film, un cartone animato, è una colonna sonora e un concept album, è rock, pop, psichedelia, è sinfonica e persino blues, è equilibrio ed armonia in ogni sua parte.

“The Wall” è insomma un’esperienza musicale tipicamente floydiana che va aldilà del solo ascolto: è un’autentica avventura sensoriale.

Non dev’esser stato semplice per Waters affrontare la stesura di un nuovo repertorio, in solitudine e in uno stato d’animo condizionato dalle continue liti che avevano procurato nel gruppo diversi mal di pancia e una momentanea separazione tra i singoli membri: i Floyd si lasciavano alle spalle i 6 anni in cui avevano consegnato alla storia l’insuperabile trilogia di The Dark Side Of The Moon/Wish You Were Here/Animals, per cui l’ideazione di un nuovo disco alla stessa altezza dei precedenti rappresentava oggettivamente un’impresa molto impegnativa.

Ma in quell’anno buio, disseminato da dissesti finanziari ed episodi di intolleranza sia verso i compagni che verso il pubblico, Waters riesce a tirare fuori dal cilindro una sequenza di piccoli gioielli caratterizzati dalla semplicità compositiva e da un sound del tutto differente dalle incisioni anteriori della band: il rock è una musica semplice, e la sua forza sta proprio nel riuscire ad elargire grandi emozioni pur dovendosi muovere in un perimetro armonico limitato.

Le registrazioni iniziano quindi a Londra alla fine del ’78, per proseguire in Francia ed infine a Los Angeles, sotto la supervisione di James Guthrie (la sua ultima fatica prima di cedere lo scettro ad Andy Jackson, che curerà il suono dei Floyd nei decenni successivi) e come dicevo è contraddistinto da anticipazioni sonore che preludono gli anni ’80 e dall’indiscutibile egemonia di Waters: la sua impronta emerge in quasi tutte le sessioni ed è l’anima stessa di “The Wall”.

Non mancano naturalmente i contributi degli altri, che giungono principalmente da Gilmour: su tutti, quella perla che è “Confortably Numb”, dove David ci dona un’autentica chicca impreziosita da uno dei più entusiasmanti e, assieme a quello di Another Brick In The Wall part 2, famosi assoli di chitarra della storia del rock.

L’album, che è il racconto delle avversità anche tragiche che costellano la vita di un musicista di nome Pink, contiene 26 tracce e si sviluppa su quattro facciate, i quattro capitoli della storia del protagonista: alternando ininterrottamente ritmi, effetti e vocalità, dall’esplosione iniziale di “In The Flesh?” alla melodia struggente del finale “Outside The Wall”, la penna magica di Waters e la Black Strat di Gilmour danno alla luce un capolavoro che segnerà, paradossalmente, la fine stessa dei Pink Floyd, almeno per la generazione come la mia che li ha conosciuti negli anni ’70.

Quello che verrà dopo è storia relativamente recente, ma è indubbio che “The Wall” costituì il punto di rottura con tutto quello che seguirà, dal poco ispirato e ripetitivo “The Final Cut” ad oggi, poiché né Waters né Gilmour saranno in grado di tornare in sala d’incisione senza ottenere un risultato che, per quanto apprezzabile, non rappresentasse qualcosa di già sentito.



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